Latent Variables Vol.2, il nuovo EP di Hylu Unit 137
Sonic Street Technologies gode del supporto da parte di diversi collaboratori e di relazioni costruite negli anni. Anche prima di SST, alcuni membri del team lavoravano assieme come Sound System Outernational, collaborando con artisti, scrittori, musicisti, professionisti e appassionati di sound system da tutto il mondo. Hylu, fondatore di Unit 137 sound system, di stanza a Lewisham, South London, e’ uno di questi. Il blog di oggi intende celebrare questo importante e duraturo rapporto di collaborazione e amicizia.
Per ringraziare Hylu e Unit 137 del supporto negli anni, SST intende ricambiare dando spazio al nuovo album di Hylu, Latent Variables Vol. 2. Il primo singolo estratto dall’EP, Betty, e’ gia su YouTube a questo indirizzo. Latent Variables Vol. 2 viene lanciato oggi e puo essere acquistato su bandcamp a questo link. Una edizione limitata su vinile nero sara’ presto disponibile, in continuita’ con la storia, la cultura. e l’eredita della cultura sound system.
Di seguito una intervista con Hylu realizzata dai nostri collaboratori Pietro Zambrin e Elena Gilli, parte del collettivo Astarbene.
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Ciao Hylu, piacere di conoscerti. Perché non inizi presentandoti?
Certo. Sono Hylu, un produttore musicale, ingegnere del suono e soundman, fondatore di Unit 137 Sound System ed etichetta musicale di Lewisham, Londra. Quest’anno è il nostro decimo di attività. E sì, la musica è semplicemente una parte fondamentale della mia vita.
È uscito oggi Latent Variables Vol. 2, a un anno di distanza da Latent Variables Vol. 1, tuo primo lavoro come produttore. Sono un lavoro unico che hai costruito in contemporanea o ci hai lavorato separatamente? In cosa si differenziano e cosa aggiunge il secondo volume al primo?
Sì, in passato ho già partecipato a diverse produzioni, ma questa è la prima esperienza da produttore solista. Questi miei ultimi due lavori sono nati in momenti diversi. Quindi, sì, si può dire che siano un continuum, l’uno dell’altro, un viaggio nella mia espressione musicale; non sono qualcosa che vedo come una singola entità. Questo Vol. 2 è la seconda parte di una creazione. Il modo in cui sono collegati è che sono stati realizzati all’interno di un processo creativo nel quale ha avuto un ruolo fondamentale un visual artist che si chiama Latent Variables. Vol. 1 è nato da una vera a propria collaborazione tra me e lui, creando musica e immagini insieme in una specie di ping-pong tra le due espressioni: io iniziavo con un ritmo su cui lui poi disegnava e a sua volta il suo lavoro ispirava il resto della mia produzione. Vol. 1. è nato proprio così. Sono stato molto ispirato visivamente; In generale sono molto ispirato dalle immagini.
Invece Vol. 2 è stato realizzato in maniera un po’ diversa. Il singolo, Betty, era una traccia che avevo creato con una strumentazione minimo: un sequencer di batteria chiamato Digitakt e un Moog Voyager, ai quali ho aggiunto in seguito il suono di un krar, uno strumento a corda etiope con cinque o sei corde, molto simile a una chitarra ma suonato in modo molto diverso. Così ho registrato diversi suoni con il krar, che sono poi stati tagliati e campionati per creare le diverse melodie che ci sono. Il video in questo caso è stato creato quando la traccia era già terminata. La seconda traccia invece, Earl, è più simile a quelle di Vol. 1 nel modo in cui è stata lavorata: c’è stato un continuo scambio. Abbiamo anche coinvolto un’altra persona nel lavoro – Kiefer Nyron Taylor, regista cinematografico – che ha contribuito creando un contenuto video diverso e forse per questo ho composto della musica completamente diversa. Quindi sì, sono lavori diversi. E non c’è nessun’altra intenzione nella musica, è tutta basata sul gioco, sull’espressione di dove ero in quel particolare momento. Inconsciamente, i generi musicali che sto creando provengono dal mio amore per ogni genere di musica, ma molti di essi sono radicati nella sound system culture, sapete no, la musica che ha i bassi come protagonisti.
Il pubblico ha per ora ascoltato la prima release dell’EP, Betty, già molto caratteristica e sperimentale, cosa ha ispirato la produzione di questa prima traccia? E cosa dobbiamo aspettarci dalla release completa?
L’ispirazione per Betty, come dicevo prima, è arrivata non definendo ciò che stavo per creare. Non è stato tipo “ok, produco una traccia dancehall”, o “sto per fare una traccia reggae”, o qualsiasi altro genere, era solo una sensazione che avevo in quel momento e di come sentivo di dover esprimerla. Ho usato davvero un’attrezzatura minima e mentre la traccia continuava crescere ho invitato un amico (Julius Richard) a suonare il krar. Ho un retaggio etiope, mio nonno era etiope e ho trascorso molto tempo in Etiopia, quindi volevo davvero avere quello strumento all’interno della produzione. In quel periodo c’erano diversi problemi in Etiopia, un sacco di lotte tribali, quindi per me questo brano è un’espressione… [si ferma] Ah, suppongo che l’ispirazione sia venuta dopo per capire cosa significasse in realtà in quel momento, perché mentre lo stavo facendo ero molto concentrato su ciò che stava accadendo in Etiopia. Quindi, per me, è in realtà il brano che formula la domanda “dove si può trovare la pace in guerra?” E non l’ho detto a nessun altro, ma per me è davvero un’opera d’arte personale che descrive come mi sento riguardo alla situazione attuale e alla situazione passata in Etiopia.
Come abbiamo già detto, il tuo lavoro è piuttosto sperimentale: cosa pensi possa portare di nuovo alla musica Latent Variables Vol. 2?
Non so davvero cosa ci sia di nuovo, è davvero personale, penso che tutto in Latent Variables sia personale. Per me è stata un’opportunità per esprimere me stesso, una sorta di progresso in termini di creatività e di espressione musicale. Quanto alla scena, non so esattamente dove questa musica si possa posizionare, è piuttosto interessante per me, perché ho prodotto molto roots, reggae, dub, tipi di suoni più tradizionali – il roots e il dub degli anni ’70 mi piacciono molto – ma anche jungle e altre generi. In un certo senso mi sembra tendere un po’ dal lato della musica elettronica, nonostante ci sia un ritmo dancehall e del dub nel modo in cui elaboro il suono: usando molti riverberi e delays da entrate aux. Quindi, mi sembra di star proponendo la tecnica del dub sposandola su un ritmo dancehall.
Quello che mi piace davvero è che è la mia espressione. Lo dico spesso quando lavoro con le persone, o se sto insegnando: personalmente penso che la sound system culture sia tante cose, e una sua parte fondamentale è l’espressione, che le persone abbiano la possibilità di esprimersi nel modo in cui vogliono, non limitandosi necessariamente a quello che vogliono fare. E non sto dicendo che la mia musica ispirerà qualcun altro a farlo, ma è quello che ho fatto io. Avrà risonanza tra le persone? Non lo so, ma se tutto va bene, sentendomi, anche gli altri penseranno di poter fare quello che vogliono, non lo so… forse è la domanda fondamentale, no? Suppongo che sia una cosa molto più personale, riguarda il modo in cui le persone interpretano te. E a me va bene qualsiasi interpretazione. Non lo so… sto blaterando, ma appunto è la domanda delle domande.
Sei uno dei membri fondatori di Unit 137, avrai quindi avuto molte occasioni già di collaborare con mc e produttori, con chi lavoreresti per un feat futuro in un prossimo lavoro? E perché?
Oh, cavolo… ci sono così tante persone con cui mi piacerebbe lavorare. Per quanto riguarda i cantanti, pensando a tutti quelli che ascolto mi viene in mente Biga*Ranx, mi piace molto quello che sta creando, sta facendo la sua cosa, con tutti quegli artwork incredibili: si vede che è se stesso, che sta creando la sua strada.
Per quanto riguarda la produzione, ho fatto un sacco di collaborazioni, quindi per me è come uscire e rientrare, penso che al momento collaborerei con un cantante. Ce ne sono così tanti. Mi piacerebbe fare un po’ di musica con Phoebs, che è anche in 137.
Parliamo di sound system. Come si collega la tua attività di produttore e artista con quella di sound system operator?
Penso che, vedendo dove sto andando con quello che sto creando, è davvero interessante suonare su un sound le mie produzioni perché è un suono molto diverso da quello che tradizionalmente viene riprodotto su un sound system: sarebbe una sfida interessante da affrontare. Ultimamente sto suonando più musica che mi piace: vedo quello che sto facendo e penso a cosa mixare con quello, perché quando faccio il dj non seleziono solo i brani tutto il tempo, mixo, perché quello è il mio background: ero un dj prima di fare musica, ma parliamo di quando avevo 13 anni o giù di lì.
Essere un soundman per me comprende un sacco di cose diverse, e non è una cosa in cui sono solo. In Unit 137 c’è Sleepy Time Ghost, che gestisce Bun Dem Out Records ed è molto dentro quello che fa, quindi con suoni reggae roots/dub; quando suoniamo come sound lui fa questo tipo di selezione. Personalmente adoro suonare roots, dub – e quando dico “dub” intendo il dub degli anni ’70 e quel tipo di suono –, ma suono anche jungle e altri generi. Ho iniziato a integrare diverse mie produzioni nei miei set, il che è fantastico perché è una mia attività che è sempre rimasta in secondo piano, perché ho già tanti ruoli da ricoprire, sapete: gestire il sound, l’etichetta, e tutto ciò che c’è intorno. Quindi mi sta facendo molto bene produrre e suonare le mie cose.
Sempre in Unit c’è anche Ed West, che suona le sue stesse produzioni, un po’ di jungle e stili differenti. Suppongo che siamo sempre stati un sound molto vario, con tante identità diverse al suo interno, perché ogni produttore e dj porta la sua atmosfera musicale nelle session. Quindi è così che funziona il nostro sound, poi ovviamente seguiamo la massive.
Avendo anche cantanti a volte suoniamo brani loro, altre volte facciamo version-excursion, quando suoni ritmi classici e loro cantano sul ritmo. Abbracciamo stili diversi, quello del mixing, quello della selection, quello classico in cui suoniamo la version vocal e poi lasciamo correre la version dub. Tutto questo perché siamo influenzati da così tante cose diverse, e suppongo perché siamo a Londra, perché il fatto è che questa città… È un melting pot, man, qui puoi sentire qualsiasi genere musicale, c’è davvero l’imbarazzo della scelta. È per questo che siamo il sound che siamo, per l’ambiente in cui viviamo, che è composto da tanti tipi di persone diverse. Ci sono sound che sono gestiti da una sola persona, ma per noi non è così. Quando si parla di Unit 137 e sound system culture, per alcuni della crew è una questione religiosa, basata sulla fede rastafariana, per altri una cosa tecnica, sono davvero appassionati a cose tipo capire a quali frequenze tagliare o come bilanciare questo o quello; per altri ancora è una cosa spirituale, per loro significa molto trasmettere quelle frequenze alle persone o esprimersi al microfono o qualsiasi altra sensazione della session. Penso cambi molto di persona in persona, ma per me il punto importante è quello di farlo per le persone, per esprimere noi stessi e passare queste vibrazioni alla gente, ai loro corpi, alle loro orecchie e al loro spirito, per farli stare meglio. E la musica che facciamo deve essere trasmessa nel miglior modo possibile, penso che questo sia il cuore della questione.
Vivi e operi Unit 137 a Lewisham, che è il quartiere che ospita anche Goldsmiths University e Sonic Street Technologies. La vicinanza con il progetto ha cambiato in qualche modo la tua percezione di questa attività? Se sì, come?
Sì, amico. Quando parliamo di Sonic Street Technologies per me parliamo anche di Sound System Outernational, quindi essere vicini a queste due voci, e Julian (Henriques, Professore, Ricercatore principale ERC, nda) e tutta la squadra, è stato bello per me poterne far parte. Penso che avrà un effetto sui sound system perché io, per esempio, così riesco a conoscere prospettive diverse, sono stato coinvolto a lavorare con i giovani, con la Goldsmiths Alchemy, e sono vicino a Natalie (Hyacinth, Ricercatrice e Research Manager, nda) o anche avere delle conversazioni con voi ragazzi di Astarbene, o con altri membri della squadra, e tutti ci sostengono perché come sound system; tutto ciò ha un enorme effetto su ciò che stiamo facendo. Penso che sia stupendo avere qualcuno che amplifica quello che la cultura sta facendo. È qualcosa che amplifica le storie di molte persone, sapete, ci sono un sacco di storie là fuori, ci sono un sacco di sound system, di persone che fanno le loro cose. Ma non sempre si sentono queste storie, ed è bello sentirle e farne parte. È una forma di storytelling quello che state facendo, è stimolante.
Nell’ambito di Goldsmiths University hai tenuto un workshop di produzione musicale con alcuni giovani ragazzi e ragazze, i Goldsmiths Alchemy di cui hai appena parlato, parlacene un po’.
Il progetto Alchemy, sono un fantastico gruppo di giovani, e così anche la squadra con cui lavoro. E l’opportunità di portare il sound system in quello che stanno già facendo, penso che sia meraviglioso, perché sono già musicisti fantastici e di talento; cantanti, produttori, ecc. Vai lì ed è tipo “tu suoni il pianoforte? Ma suoni anche il sassofono, ma fai anche dei video…”. C’è questa ragazza che mi ha detto: “Sì, suono il piano e faccio questo, e faccio quello”, è incredibile. Quindi per me e il team, Jerry Lionz, Phoebs, Anja Ngozi, andare lì per il primo workshop e farli sperimentare il sound system e dar loro la possibilità di suonarci, di sentire altre persone che ci suonano è stato davvero soddisfacente. Siamo anche andati in studio per produrre insieme musica da poter suonare in due eventi (Lewisham Sound System Trail 2022, tenutosi lo scorso 29 maggio e uno in arrivo, nda); penso che stiano vivendo l’intera esperienza dei diversi modi di esibirsi. In questo momento stanno suonando come da tradizione sound system, senza palco, senza casse spia e con il sound rivolto direttamente verso di loro, quindi non si sentono perfettamente e devono pensare “come mi devo comportare?” “Come farò a parlare con l’engineer?” Ed è tutto abbastanza travolgente perché ci sono persone davanti a te intanto e ci sono i bassi che vanno ovunque; è una cosa nuova per loro. Sono più abituati a stare su un palco, con le loro casse spia e impianti normali e tutti che li guardano, ma nella sound system culture la gente potrebbe stare rivolta verso il sound.
Quindi, sapete, è diverso, così si è sullo stesso piano, per terra, con le persone; questi ragazzi stanno sperimentando tutto questo, ed è un’opportunità rara. Quindi penso che sia un onore poterlo fare con un gruppo di giovani molto talentuosi, che hanno tra i 14 e i 18 anni. E non stanno solo acquisendo solo la mia esperienza, ma anche quella di High Lewis, che ha 35 anni ed è in questo ambiente da più di 10 anni, di Jerry Lionz, che fa la sua musica, la sua cosa (Channel One si suona i suoi brani, così come Jah Youth e Shaka), è un veterano e suona anche la chitarra con i Twinkle Brothers. Quindi io faccio le mie cose, loro fanno le loro, e poi c’è Phoebs, che viene da un ambiente diverso, viene dalla scena jungle, andava in giro con la Congo Natty family. E poi c’è Anja Ngozi, che ha origini giamaicane e fa sound system in modo leggermente diversa perché per lei è una cosa personale, ha a che fare con il suo retaggio culturale, con la sua famiglia e la sua storia, ce l’ha nel sangue; suo padre faceva di tutto con la musica. E quando si esprime tutto questo ai giovani loro lo sentono, si vede davvero che ne escono ispirati. È stato bello, e lo è ancora.
Per salutarci: quale futuro immagini o speri per la cultura sound system e la reggae music?
Beh, penso che quello che sta succedendo è una rinascita del sound system, ci sono un sacco di persone che conosco che costruiscono boxes e mi stanno dicendo che hanno più lavoro che mai. Tanta gente sta costruendo sound system in tutto il mondo. Speriamo che le persone possano continuare a farlo e che possano continuare a farlo nel modo giusto per la sound system culture – cosa che secondo me bisognerebbe fare di più, ma purtroppo non sempre si riesce. E penso che ci sia questa comunità crescente di persone che vivono la strada. Dico sempre questo, il sound system è per la musica ciò che i graffiti sono per l’arte, perché è accessibile a chiunque. Abbiamo fatto una dance l’altro giorno a Deptford – in uno spazio privato, ma comunque per strada – e c’erano le famiglie locali – e c’erano persone di tutte le età, bambini, anziani – e poi c’erano i locali, anche persone con problemi, dipendenze da sostanze, ed erano tutti insieme per strada, nella dance. C’erano persone con le stampelle, in sedia a rotelle, altre che non sarebbero entrate in un locale per paura dello spazio o perché i buttafuori non li avrebbero lasciati entrare. Ma tutti possono entrare in strada, ovviamente c’è la security, ma l’atmosfera è molto più aperta, e sarebbe bello viverle più spesso queste situazioni, dove le persone possono riunirsi, possono godere della musica e possono godere dell’arte. Proprio come quando si scende e si vede un bel graffito, chiunque può passarci davanti, perché è per strada. E chiunque può passare davanti a un sound system montato per strada.
Sarebbe bello vedere altre dance così in tutto il mondo. Non dico che le session nei locali non siano belle, ma mi piacciono tantissimo le situazioni per strada, di giorno, dove non si esclude nessuno. Tutti sono ammessi, e si sentono a proprio agio e al sicuro in quello spazio. È bello vedere più sound system e più persone che fanno quello che vogliono fare. E penso che sia un bene che le persone suonino musica originale, davvero un bene, perché educano le persone come un sound system, non solo attraverso la musica che suonano, ma anche attraverso le parole e le voci che trasmettono sul sound. Quindi è davvero bello mantenere viva questa eredità e stare là fuori a promuovere questa cultura in modo che la gente non se ne dimentichi. E poi, ed è così che facciamo noi, è importante che ognuno si possa esprimere come vuole, per poter sempre essere fedele a se stessi e avere fiducia in quello che si sta facendo. Tra i giovani con cui stiamo lavorando, c’è questo gruppo che fa un po’ di trap e drill, aggiungendo però una vena di coscienza in più. Sono già un sound a modo loro perché sono come una famiglia, ognuno fa una cosa diversa, un ragazzo è un produttore, l’altro un cantante, e così via. Hanno imparato a conoscere il sound system e ne sono rimasti rapiti. Quindi penso che ispirerà sempre più persone. La parte più importante è l’educazione, così la gente capisce da dove viene la cultura e non la perde, perché il sound system nel Regno Unito ha avuto un ruolo importante nella lotta contro la segregazione e il razzismo e l’oppressione, quindi è davvero importante capirlo. Ma è anche importante sapere chi sei, nel tuo contesto.
E la cosa più potente è l’amore: quindi più amore, più creatività.
Più amore, Hylu. In bocca al lupo e grazie.
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Elena Gilli e’ co-fondatrice di Astarbene.com, web radio e portale di reportage dedicato alla Reggae e Black Music a 360° nato nel 2015 a Roma. All’interno del progetto ricopre il ruolo di capo redattrice della radio, social media manager e organizzatrice di eventi. Come membro di Astarbene gestisce i social media di SST e di diversi festival di settore (come Bababoom Festival, Bass Forest Festival). E’ addetta stampa dell’etichetta indipendente Macro Beats.
Pietro Zambrin è co-fondatore, operator e MC di Blue Shepherd Sound System; co-fondatore e manager dell’etichetta Tuff Wash Records. Come membro di Astarbene (dal 2020), ha scritto e co-condotto un talk show e fornisce servizi di comunicazione. Fa parte dei team che gestiscono i social media di Astarbene e SST.